Lettere da un altro mondo

14 anni da chirurgo umanitario
20 minuti di lettura

Prof. Sandro Contini
Medico Chirurgo

Sud-Sudan 2011 – Leer 

 

28 novembre 2011   

Ci sono voluti quattro giorni per arrivare a Leer. Prima da Roma ad Amsterdam, con atterraggio di notte, in una fitta nebbia; poi, briefing MSF e ripartenza la notte successiva per Nairobi. Altro cambio d’aereo e ho raggiunto nel pomeriggio Juba. La stanza del compound MSF a Juba era davvero misera, solo una sedia e un letto polveroso. Ho cenato da solo nel giardinetto interno mentre una scimmietta mi fissava curiosa: riso e fagioli, che sarebbero stati alla base dei miei pasti per i successivi mesi. La mattina dopo, un volo World Food Program mi ha mollato sulla piana dell’aeroporto di Wau, seconda città del paese, ad aspettare per due ore l’elicottero che, sorvolando un’infinita e monotona savana, mi ha finalmente scaricato a Leer, atterrando, chissà perché, in un campo di erbe spinosissime a due passi dal compound di MSF, in cui sono stato accompagnato, un po’ stravolto, da un piccolo e variopinto comitato di accoglienza. 

 

Si vive ognuno in un tucul/casetta di circa tre metri per tre, tetto in lamiera con pareti e pavimento di fango secco. Un letto avvolto dalla “mosquito net”, una sedia, un minuscolo tavolino e un baule metallico fanno da arredamento. Fra un tucul e l’altro razzolano le galline, e di notte, da sotto le lamiere, qualche pipistrello penetra nella stanza. In effetti scopro una colonia di pipistrelli sotto il mio tetto e di notte è un continuo gratta gratta. Mi volano vicini, piccoli bath(man), e lo svolazzo mi tiene sveglio, anche se protetto dalla “mosquito net”. Mi ci sono affezionato e tengono compagnia: nel dormiveglia, mi figuro che mi guardino e che parlino di me. Purtroppo, alle tre di notte il canto dei galli mi ricorda la canzone “Il gallo è morto” di Cochi e Renato, e risveglia istinti gallicidi 

Le latrine sono roventi box di lamiera, al sole e distanti un centinaio di metri dal tucul, non semplici da identificare e raggiungere in una notte senza luna. La mattina, al vento freddo dell’alba, ci si lava all’aperto con un esile getto d’acqua che esce da un tubo di plastica; più tardi, salito il sole, si viene aggrediti da un caldo oppressivo (35°- 40°) nonostante il sollievo intermittente di un refolo di vento. Ci si può collegare a internet, ma solo nella stanza adibita a mensa, e non a tutte le ore perché il generatore non ce la fa a reggere. 

Due gentili signore locali ci cucinano i pasti sul misero fornelletto a treppiede onnipresente in tutta l’Africa: zuppa di ceci e fagioli, rari pezzi di carne. Verdura e frutta fresca sono quasi assenti. Solo cipolle, qualche patata, rare banane. In compenso birra e vino sudafricano aiutano il morale della truppa. 

Il nostro gruppo è guidato da un simpatico inglese sulla quarantina. Quattro i medici: una giovane dottoressa del Myan Mair che segue i pazienti con AIDS e tubercolosi, un medico etiope per i malati di colera e Kala Azar, un giovane internista statunitense per i pazienti internistici e infine la mia collega chirurga che sono venuto a rimpiazzare: una tedesca di 55 anni, magra, gentile, infaticabile, teutonicamente scrupolosa e ordinata, mai presuntuosa, quasi umile. A volte così meticolosa da diventare un po’ pallosa. Ha undici missioni MSF sulle spalle, fra cui una in Darfur in cui si era beccata un’epatite ma continuava imperterrita ad operare, gialla come un limone.  Completano la squadra tre infermiere (un’inglese, un’olandese e una neozelandese) e un’ostetrica americana sulla sessantina, con lunghi e ispidi capelli grigi, infagottata in ampi camicioni che la fanno tanto somigliare a una strega. Garbata, anche se all’apparenza un po’ scostante; credo sia solo perché tende a vivere appartata nel suo mondo di gravide.  

 

In ospedale 

La giornata è in genere abbastanza monotona e ripetitiva. Alle 7 percorro, infreddolito, i 100 metri di terreno arido per raggiungere le latrine e dopo una frettolosa abluzione all’aperto faccio colazione con la mitica, antidepressiva Nutella. L’ospedale si raggiunge a piedi in pochi minuti, su un sentiero cosparso di confezioni vuote di Plumpynut* buttate senza cura dai locali. Il briefing mattutino si tiene all’aperto nel cortile dell’ospedale, protetti dal grande ombrello frondoso di un mango. Si parte poi per il giro in corsia, immergendosi nella sporcizia odorosa di un autentico ospedale africano. Gli infermieri non hanno camici e non so perché non vengano imposti. Spesso vestono giacca e cravatta e appena possono siedono in un angolo del cortile, ben distanti dalle corsie, dove vanno solo se chiamati. Sui letti, gli immancabili materassi rivestiti di dura plastica nera, ma mai (o raramente) lenzuola. L’attività operatoria inizia alle 9 e dura fin verso l’una. Se non ci sono urgenze si ritorna a casa per il pranzo, a base dei soliti fagioli (lessati, conditi o a purea) rape, cipolle, riso o spaghetti, con occasionali pezzi di carne. Poi ognuno si ritira per una piccola siesta, sonnecchiando avvolto dal caldo appiccicoso.  

L’ambulatorio pomeridiano è una snervante successione di casi clinici che mettono a dura prova: dal voluminoso lipoma sul cranio di un bambino di un anno, alla bimba di 6 mesi senza apertura vaginale, alla 18enne che non ha mai avuto le mestruazioni (pur sposata), per concludere con ulcere ed ascessi mostruosi. Una corte dei miracoli. Appena li tocco urlano, mi allontanano la mano, mi afferrano il braccio. La stanza è poco illuminata, maleodorante. Ogni tanto qualcuno sputa e rutta. Quando, alla fine, esco all’aria aperta, mi sembra di emergere da un inferno dantesco. Mi rendo conto del bisogno disperato di aiuto ma occorre uno sforzo mentale per ricordarlo. Il ritorno a casa alle 18 è premiato da una doccia purificatrice, con l’acqua resa tiepida dal sole, per scrollarsi di dosso gli odori, la sporcizia, l’aria dell’ospedale. Dopo la cena, stesso menu del pranzo, il momento clou della giornata: la telefonata a casa via Skype, sperando che Internet funzioni. In ogni caso, un bicchiere di vino o una birra raddrizzano l’umore, e poi a nanna con un sonno spesso irregolare, non tanto per i pipistrelli, ma per i vari pensieri angosciosi, che si allontanano solo verso l’alba. Dubbi e interrogativi che nascono dall’essere soli, isolati e immersi in un’umanità scarnificata ai bisogni essenziali, così tragica e disperata da far cadere la speranza. A volte devo scavare a fondo per ripescare le motivazioni. 

La polvere in ospedale è onnipresente, complice il continuo vento che solleva la sabbia del cortile. Le corsie sono stipate, con un odore incredibile di umano. Gli esami di laboratorio disponibili sono pochi. Non c’è radiologia. Non esiste una banca del sangue. La chirurgia è una cenerentola fra i programmi per AIDS, colera, malaria, kala azar, denutrizione. Senza medici anestesisti, l’unico infermiere locale che ha una certa pratica di anestesia non sa intubare. Non c’è un respiratore in sala operatoria, il paziente è ventilato manualmente. La sterilità fa paura. L’assistenza postoperatoria non esiste. Abbiamo un solo concentratore di ossigeno per tutto l’ospedale: se utilizzato in sala operatoria, non è possibile somministrare ossigeno a un altro paziente, in corsia o in pronto soccorso. Non è una questione economica. ma di scelte.  

Eppure, casi seri ne arrivano: ieri un paziente si è presentato con il braccio sinistro spappolato e quasi scarnificato da un proiettile di Kalashnikov. La mattina successiva si lamentava con l’arto penzoloni, le ferite scoperte e le bende buttate sul materasso, nonostante tutte le raccomandazioni fatte a lui e agli infermieri. Mi accorgo di diventare razzista. Ma ci sono anche dei bei momenti, in cui ti senti orgoglioso. Come nel caso una ragazza di 18 anni, operata per una gravidanza extrauterina con una grave emorragia addominale e valori di emoglobina quasi incompatibili con la vita. Senza sangue disponibile, ho aspirato quello trovato in addome, circa due litri, e l’ho trasfuso sul momento. Questa pratica di “autotrasfusione” è ben conosciuta, specialmente in paesi con risorse limitate. Per me era la prima volta: è stato bello vedere l’entusiasmo e il fervore di ognuno in sala per partecipare dando il proprio contributo. Senza l’infermiere anestesista, in ferie, il medico americano ha addormentato la ragazza seguendo le istruzioni del testo di anestesia aperto davanti a lui. La ragazza ora sta bene. 

Nello stesso giorno a mezzanotte, un cesareo di una donna all’ottavo figlio con un feto che mi è sembrato immenso. La paziente continuava a perdere sangue, la strumentista mi guardava atterrita e l’ostetrica americana rianimava il bambino ripetendo esasperante:” you will be the next president of South Sudan” mentre io ero alle prese con l’utero sanguinante. Come in un film di Tarantino. Come Dio ha voluto, ce l’ho fatta ma ho preso una bella strizza. Tornato nel tucul alle tre, ero solo smanioso di sonno. 

Qui tutto è al limite: pazienti in fase terminale sono lasciati sul terreno davanti all’ospedale, altri giungono giorni e giorni dopo il trauma, con fratture esposte, ricoperte di mosche e larve. Un uomo arrivato stanotte con il tendine d’Achille tranciato da una lancia (lesione tipica qui) è stato adagiato sulla polvere davanti all’ingresso. L’infermiere non sapeva dove erano garze e disinfettanti, io li cercavo in sala operatoria, di cui ho le chiavi, mentre un gruppetto di persone mi guardava incuriosito. Uscito dalla sala, vedo il paziente strisciare per terra sulla gamba ferita per raggiungere la corsia, mentre l’infermiere lo accompagna con “nonchalance”, con la cartella in mano. Ho dovuto caricarlo io in barella, incazzato e avvilito. Che voglia di fuggire! 

Una donna anziana di un villaggio lontano è stata aggredita cinque giorni fa da un ippopotamo mentre raccoglieva gigli d’acqua lungo il fiume. Gli ippopotami hanno grandi fauci frantumanti e sono i secondi killer in questo paese. Dopo le infruttuose terapie di un guaritore locale, si sono decisi a portarla da noi, con due giorni di viaggio su una barella improvvisata. Femore e tibia emergevano da due ampie ferite sporche di terriccio, con i muscoli penzolanti. Un infermiere della sala operatoria è quasi svenuto dalla puzza. Una volta pulita e medicata la ferita, la paziente, il giorno dopo, ha rifiutato l’amputazione e si è dimessa. Per morire, presto o tardi, a causa dell’infezione che sopravverrà inevitabilmente: la scelta di tenersi il proprio corpo, anche se devastato, quando di vivere o di morire non ti importa più di tanto. 

Oggi è giunto in ambulatorio un cieco trainato dolcemente con un’asticella di bambù da un bambino di 6-7 anni. Non è raro vederli in Africa, dove l’oncocerchiasi, una malattia che rende cechi (“River blindness”) si contrae facilmente bagnandosi nei fiumi. Il bambino ha guidato bravamente il suo vecchietto da noi per cambiare il catetere vescicale. Ricordo una scultura che rappresenta la stessa scena, davanti alla sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, a Ginevra. È dedicata alla miseria umana e soprattutto all’altruismo e alla carità che può suscitare. Quando ero a Ginevra mai avrei immaginato di ritrovarmela davanti nella realtà quotidiana.  

 

Il paese 

Il Sud Sudan è un paese che importa tutto il suo fabbisogno. Il petrolio, unica sua ricchezza, raggiunge il mar Rosso con un oleodotto che attraversa, a nord, il Sudan, ulteriore causa a un conflitto già strisciante per confini non chiariti, lotte tribali e guerriglie. Le aree coltivate sono rare. Verdura e frutta sono quasi introvabili al mercato di Leer, al contrario di birra, coca cola e vino sudafricano, che arrivano in autocarri dopo impervi viaggi lungo strade fatiscenti. C’è abbondanza di mercanzia cinese: saponi, dentifrici, jeans e magliette taroccate, ma non artigianato locale. Creme per il corpo con cui uomini e donne, come in Sierra Leone, si cospargono anche il capo rasato, si trovano ovunque. 

La popolazione qui è di statura slanciata, tanto che a volte le nostre stampelle non sono sufficienti per la loro altezza. Quasi tutti esibiscono scarificazioni tribali sul volto.  È gente fiera, difficile e aspra: alti e sottili, si muovono con movimenti ritmici ed eleganti che rievocano una dignità antica. Sono colpiti endemicamente da Kala Azar (la leishmaniosi viscerale), HIV, malaria, polio, meningite, colera. I tumori che ho visto erano così avanzati e mostruosi che ogni tentativo di asportazione sarebbe stato impraticabile. Loro lo capiscono e ti fissano con uno sguardo misto di rassegnazione, sofferenza e gratitudine. Impiegano ore, anche giorni, per giungere in ospedale, spesso a piedi. Attraversano fiumi a volte con l’acqua alla gola, sperando di non essere attaccati da coccodrilli o ippopotami. E io che mi incazzo quando arrivano con ferite sudice e infette! La sera i tamburi dal villaggio vicino sono martellanti, ritmando cantilene che mi sembrano arabe. Un mondo dissonante ed estraneo al nostro.  

Nonostante qui le vacche siano più numerose delle persone, molti ne riconoscono la fisionomia e il muso, neanche fossero persone. Non solo di una, ma di centinaia. Mentre mostravo alcune foto del villaggio ai miei infermieri, uno di loro ha riconosciuto la vacca di un suo lontano parente! Al pascolo i pastori sono armati di una lunga lancia acuminata, oggi spesso sostituita da un kalashnikov; le razzie e i furti di bestiame, sanguinose consuetudini della cultura nomade, si sono fatte sempre più cruente: non ci si limita a rubare, ma si ammazzano anche donne e bambini durante le incursioni nei villaggi.  

 

Momenti  

Per Natale cena all’aperto sotto un grande albero: antipasto birmano a base di uova sode e patate lesse in una salsa decisamente piccante, che almeno si spera sia riuscita a uccidere i batteri, visto che le uova, conservate rigorosamente al caldo, avranno avuto almeno tre mesi. A seguire insalata di bambù e riso così compatto che si poteva fare a palle. La birra e il vino bianco sudafricano hanno stimolato la conversazione, ma alle 21 tutti erano un po’ cotti e siamo andati a dormire. Alle 23 hanno chiamato per un paziente ferito al torace da una lancia. L’infermiere di sala operatoria, che vive nel villaggio, non si trovava, e neppure le chiavi della sala operatoria, per cui abbiamo trasportato il paziente in sala attraverso una finestra, caricandolo sostanzialmente in spalla, aiutati da parenti e amici. Drenato il torace, alle 4 ho riguadagnato il letto. Così è cominciato Natale.  

Il mio giovane amico statunitense non resiste più e partirà il 9 gennaio: è “burned out”. Amareggiato dalla gestione, dalla mancanza assoluta di mezzi, dall’impossibilità di fare una medicina decente. Lo scorso anno, altri tre non se la sono sentita di continuare. L’apparente distacco fra i centri di decisione e la realtà traumatizzante in cui si lavora è una delle ragioni. La responsabile del programma MSF a Giuba parla del Sud Sudan con una grande carta geografica appesa, spostando le sue armate come Napoleone, ma non vede la sporcizia, non sente il cattivo odore delle corsie sovraffollate. Da sei mesi la sala operatoria non ha un aspiratore, certi fili di sutura non sono disponibili e non si può sempre rispondere che c’è stato un errore nell’ordine e che ci sono, comunque, dei tempi tecnici. L’umanitarismo è deleterio se non sorretto da un vigoroso pragmatismo professionale. 

 

Ritorno al tucul nel primo pomeriggio: fa un caldo boia e il vento secco e caldo mi avvolge. La stagione delle piogge è finita da poco, ma le crepe sul terreno sono già ben aperte per la siccità. Questo uno dei paesi più desolati che ho conosciuto ma il cielo di notte è incredibilmente gremito di stelle. Sto cercando di adeguarmi a vivere fuori dal mondo. Tre missionari comboniani sono a Leer da 30 anni. Avrei mai una forza uguale? Mi manca la spinta religiosa, ma sto provando a resistere, anche se talvolta la spossatezza mi vince. Leggere alla luce delle candele mi deprime (l’elettricità viene tolta alle 20,30), anche se i pipistrelli fanno compagnia. Allora ascolto musica, come ora la Settima di Beethoven. La nurse neozelandese conosce la data di nascita di Beethoven e la festeggia ogni anno, con devozione e gratitudine.  

 

Pochi giorni dopo aver scritto queste righe, chiamato di notte per un cesareo, ho avuto un prolungato calo di pressione; senza particolari conseguenze, ma che ha dato la misura del mio affaticamento. Il cesareo è stato portato a termine, così come un altro faticoso intervento il giorno dopo su un bambino, nel caldo micidiale nel pomeriggio. Ma pare che chi mi incontrava, guardandomi rimanesse incerto sulle mie condizioni di salute, anche se non avevo particolari sintomi. Per questo il responsabile del progetto mi ha avvertito che aveva preso la decisione di farmi rimpatriare. 

 

15 gennaio 2012 

 

Scrivo da Lokichokio, Kenia, al confine con il Sud Sudan, dove si trova la base logistica di MSF. Dormirò qui stasera, sulla strada del ritorno, con venti giorni d’anticipo: Medevac: evacuazione per ragioni mediche. Gli sbalzi di pressione arteriosa, un collasso in sala operatoria, in una parola una sindrome da affaticamento, hanno consigliato la decisione più logica.  

Sono partito stamattina con un piccolissimo Chessna. Lungo il volo quattro tappe, atterrando su piste cortissime e accidentate, in mezzo al nulla, fra piccole folle di locali e ragazzini curiosi, per scaricare materiali e pazienti. Ogni volta l’entusiasmo, la vitalità e la carica umana del personale MSF mi sono sembrati come piovuti dal cielo, in mezzo a tanta desolazione. 

Vedendo un bagno normale e mangiando sugo di carne e melanzane, capisco di essere tornato alla normalità. Domani si vola a Nairobi per il grande balzo verso l’Europa, con la consueta colpevole sensazione di abbandonare la gente in mezzo ai conflitti, agli ippopotami, ai coccodrilli, agli scorpioni, al lerciume. Risenti l’“hello surgeon” dei pazienti all’ultimo giro in corsia e, come sempre, capisci che in fin dei conti vale sempre la pena. 

 

*Il Plumpynut è un nutrimento ipercalorico sotto forma di barrette che si dà ai bambini malnutriti 

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